Domenica 29 settembre abbiamo chiuso la stagione per rifugi a casa, sul Beigua, sul nostro monte imbronciato e salato. Siamo tornati a Pratorotondo con il cuore spalancato, increduli nel vedere un cielo alto, terso, luminosissimo, cosa che il Beigua (a noi) generalmente concede di assaggiare tre ore prima di andare in scena, giusto per farci assaggiare la torta per poi sfilarcela da sotto il naso con un sorriso sadico. Poi abbiamo capito. Beigua. Beigua mio. Beigua del cuore. Cosa mai ti avrò fatto. Con un po’ di nebbia sarebbe forse venuto freddo, forse ci saremmo riparati all’interno, forse le nuvole avrebbero trattenuto il calore come una coperta, ma con un cielo così alto e un prato esposto a levante, con le ombre lunghe di settembre che si mangiavano l’erba, poteva venire veramente freddo e noi, beatamente scemi, saremmo rimasti fuori. Abbiamo chiuso le giacche e alzato i cappucci, abbiamo messo le mani in tasca, il naso nel bavero, le bestemmie dietro i denti del giudizio, e abbiamo attraversato le parole degli autori palestinesi come fosse la prima volta, scegliendo con cura cosa, quando, perchè lo sappiamo, e il perchè non cambia mai. Abbiamo condiviso rabbia, domande, dolcezza e poi ancora tisana e formaggio, abbiamo lasciato il tomo per chi voleva ancora un’altra ora, abbiamo abbracciato chi tornava, conosciuto e condiviso e congelato, grazie per le domande, la meraviglia, il vino. Grazie per aver accolto. Grazie per il tramonto freddo senza cambiare idea. Grazie Ashtar teatro per aver permesso che queste parole fossero di tutti, grazie per quello che ancora fai, per il coraggio e la forza. Grazie Gloria, che con tutta la vita che cambia ci hai voluti su quel prato che è casa e sei passata, siete passate, ad abbracciarci. Vi auguriamo tutto il bene che la vita può dare. E grazie, Beigua. Non posso non volerti bene,