Giovedì 29 agosto, traumatizzati dalla calura marchigiana, siamo tornati a Ca’ le Campane per raccontare il temporale forte. L’aria era immobile e le zanzare fameliche, la campagna si srotolava giù per la collina e il giardino era già costellato di sedute, e noi abbiamo salutato il tramonto sudati e con il cuore leggero. Abbiamo affondato i denti nei pomodori dolci dell’orto e nel pane fatto in casa, montato tutto saltellando sull’erba con le galline che ci chiocciavano intorno chiamandosi dalle macchie di rosmarino, bevuto acqua, tanta acqua, benedetta sia l’acqua, e poi, mentre la sera rinfrescava appena, abbiamo iniziato a raccontare.
Siamo stati accolti immediatamente a calabroni in faccia.
Non è una metafora. Nelle prima tre battute un calabrone notevole si è stampato sulla fronte di Sole ed ha accompagnato tutta la storia, a volte prendendo a capocciate i faretti in ribalta, a volte infilandosi fra i capelli di Tiglio. Non credo sia necessario specificare che ne avremmo fatto a meno (Alla fine si è fritto sul faretto. Ci spiace, calabrone.). Schivando le piaghe bibliche, Tiglio e Sole si sono raccontati davanti ad un pubblico attentissimo, sospeso, che sospirava d’amore e tristezza. È stato facile, con un’eco enorme in quella campagna zitta, ci ha riempito le braccia come una mietitura.
Grazie per essere venuti ad ascoltare questa storia, grazie per la delicatezza ed il rispetto con cui l’avete accolta, grazie per le chiacchiere fino a tardi e le lacrime per il pane, grazie calabrone perché potevi fare molti più danni di così. Grazie Adriana e Angelo, ancora una volta, per accoglierci con pomodori e caffè e aria di casa, come se abitassimo tanto vicini da scambiarci i semi. E grazie terra bella che ci raccogli sempre.